Valutazione dei risultati terapeutici
La moderna terapia psichiatrica si trova ad affrontare problemi importanti come il contenimento delle angosce da situazione, la compliance verso gli psicofarmaci, l’impatto di relazioni terapeutiche prolungate nelle comunità, nei day-hospital ecc. Si avvale pertanto di interventi plurivalenti, in cui l’uso della psicoterapia è ormai ben integrato con quello dei farmaci, anche per la facilitazione da questi operata nei suoi confronti.
A lungo la psicoterapia è stata messa in discussione relativamente alla sua efficacia. Presenta infatti difficoltà specifiche nella valutazione dei risultati, secondo sia i criteri tradizionali del metodo scientifico basato su dati oggettivi condivisi, sia i criteri soggettivi derivabili dalle impressioni del terapeuta, del paziente e dei familiari. E’ stato sostenuto a più riprese che il miglioramento in psicoterapia fosse dovuto alla cosiddetta “remissione spontanea”, cioè al mero passaggio del tempo; che i pazienti traessero uguale giovamento da una qualunque delle tre psicoterapie principali; che i fattori “aspecifici” fossero i veri fattori terapeutici.
La dimostrazione dell’efficacia della psicoterapia è emersa come imponente soltanto all’inizio degli anni ’80, quando i ricercatori hanno adottato la nuova metodologia statistica della “meta-analisi” che permette di integrare i risultati derivanti da studi condotti su tipi diversi di psicoterapia. Questa tecnica misura infatti il cosiddetto effect size, cioè la “dimensione del risultato” del trattamento espressa in termini di deviazioni standard, indipendentemente dalla dimensione dei campioni sui quali essa viene calcolata. Essa ha reso a tutti evidente che le psicoterapie ottengono in media risultati nettamente superiori sia ai controlli non trattati che al “placebo”, e che questi risultati tendono ad essere abbastanza duraturi.
Eppure, nonostante questi progressi, non si riusciva a dimostrare la superiorità di una tecnica psicoterapeutica rispetto ad un altra: il “paradosso della equivalenza” tra le varie psicoterapie costituiva ancora una chiara minaccia alla legittimità scientifica delle varie scuole.
L’interesse maggiore fu allora spostato dallo studio del risultato allo studio del rapporto tra processo e risultato: “Cosa deve succedere nel corso di una terapia per cui ci si può aspettare alla fine un risultato positivo?”. Dalle ricerche sul processo scaturirono tre possibili spiegazioni per il paradosso della equivalenza: il principio della equifinalità; la imprecisione degli attuali metodi di ricerca; l’esistenza di fattori curativi comuni misconosciuti dalle diverse scuole teoriche.
Siamo ancora lontani da una risposta definitiva. E’ certo che le scuole che sottolineano solo i fattori specifici (determinati interventi “tecnologici” a scapito dei fattori aspecifici) commettono un grosso errore, perché nel training si dovrebbe dare almeno uguale enfasi ai fattori legati al rapporto emotivo (fiducia, calore umano, accettazione, saggezza, ecc.). D’altra parte, in psicoterapia l’oggetto di studio non è un dato obiettivo (numero di ore, tipo di interventi riportati da un osservatore indipendente, ecc.), ma il “significato” che l’intera situazione terapeutica assume per il paziente, attraverso l’esperienza nel suo complesso, includendo inevitabilmente gli aspetti inconsci. Il privilegiare i dati descrittivi potrebbe derivare da un retaggio della tradizione comportamentista. Sarebbe forse importante studiare anche le strutture di significato del paziente, il senso da lui dato alla esperienza terapeutica nel suo complesso, facendo delle ipotesi e solo allora verificarle collegandole al comportamento, cioè al risultato.
Danni iatrogeni in psicoterapia
Gli interventi psicoterapici propriamente detti dovrebbero seguire una metodologia ben precisa. A fronte di una forte domanda indifferenziata di psicoterapia tuttavia esiste una corrispondente diffusione della improvvisazione ad opera di terapeuti senza adeguata preparazione medica e formazione professionale specifica. E’ evidente che nella risposta impropria di “terapeuti improvvisati”, si possano avere danni iatrogeni: per seduttività, manipolazione, incapacità a gestire l’aggressività e l’erotismo del paziente, difficoltà a mantenere un rapporto adeguato ecc…
Danni iatrogeni aspecifici che possono derivare da questa “mal practice” sono: l’interruzione della “cura” ed il rifiuto di accedere ad altre psicoterapie; la perdita di fiducia e speranza; il ricorso a pratiche alternative non scientifiche; l’insorgenza di disturbi emotivi gravi; la cronicizzazione e l’aggravamento della patologia.
Danni iatrogeni specifici possono essere invece: l’anaclitismo, con perdita di autonomia ed incapacità di tollerare le separazioni dal terapeuta; l’interminabilità dell’analisi per istituzione di un rapporto simbiotico tra paziente e terapeuta; la tendenza all’acting ed ai comportamenti anomali; il crollo delle difese, spesso come conseguenza di interpretazioni perturbanti o errate nel “timing”, con regressione maligna fino ad un livello più arcaico e meno strutturato con comparsa di sintomi psicotici; le ripercussioni sulla rete del paziente, prima di tutto quella famigliare, con incapacità dei congiunti di tollerare il carico emotivo di responsabilità più o meno direttamente loro imputata, oppure compromissione irreparabile dei rapporti con i membri della famiglia da parte del paziente stesso per episodi di aggressività incontrollati.